Al momento di scrivere è in corso lo sciopero generale e la manifestazione nazionale del 14 giugno si è conclusa da poco.
Parigi e le principali città francesi sono state invase da fiumi di manifestanti ( un milione nella sola capitale). Sono in corso – dice la tv nostrana – scontri molto violenti e il dito è puntato, ovviamente, sui giovani “casseurs”. Le immagini restituiscono invece cariche di sbirri alla “robocop”.
E’ troppo presto per tirare un bilancio della lotta in corso e individuarne possibili prospettive, possiamo però andare a ritroso e ripercorrere quanto accaduto.
Non che il clima fosse idilliaco in Francia: la vittoria elettorale del Front National ed il clima d’emergenza seguito agli attentati di gennaio e novembre 2015 avevano bloccato l’iniziativa politica. Nonostante ciò, una grande mobilitazione sociale andava crescendo, dura e determinata, come la manifestazione dei lavoratori Air France contro la soppressione dei posti di lavoro (ricordiamo le immagini della precipitosa fuga dei dirigenti a torso nudo) o come la ripresa di scioperi ed interruzioni del lavoro nelle piccole e medie imprese a seguito delle obbligatorie trattative annuali.
Tutto questo era la dimostrazione che l’inerzia e la debolezza della sinistra e delle direzioni sindacali non erano per niente condivise dai lavoratori e dai molti giovani colpiti da disoccupazione e politiche di austerità. La situazione rimarcava la crescente distanza del movimento dei lavoratori dai partiti istituzionali, già colpiti dall’astensionismo e dal voto al Front National da parte dei settori popolari nelle ultime elezioni.
Medef (la Confindustria francese) premeva sul governo affinchè il tema del “costo del lavoro” fosse posto con urgenza, per ridare competitività all’industria francese e portare la Francia al livello di “austerità” degli altri Paesi europei.
L’opera di erosione dei diritti sul lavoro iniziata da alcuni anni veniva così drasticamente velocizzata: il governo Valls-Hollande si faceva promotore della legge sul lavoro (loi travail), nuova e più potente mazzata ai lavoratori e misura utilissima per la ripresa dei profitti attraverso lo smantellamento della giornata lavorativa legale, tagli ai salari, destrutturazione dei contratti collettivi, maggior libertà di licenziamento. Una legge ispirata, secondo lo stesso Valls, dal nostrano Jobs Act.
Ma la loi travail è esplosa nelle mani di chi la stava fabbricando. Almeno fino ad ora, e non è poco.
Dopo la diffusione di un’approfondita analisi della legge, alcuni sindacati, sicuramente i meno “concertativi”, e le reti sociali con ripetuti appelli chiedevano il ritiro della legge. Da notare che le direzioni sindacali, fino ad allora, si erano limitate a mettere in discussione solo alcune misure, lamentando più che altro la mancanza di dialogo col governo, senza alcuna chiamata alla mobilitazione, nel più perfetto stile “italico”. Il fatto poi che l’invito alla prima mobilitazione sia partito dalle reti sociali, rivela che le direzioni dei sindacati confederali erano orientate alla resa, cosa del resto evidente di fronte alla totale mancanza di preparazione alla mobilitazione, costruita con il necessario lavoro di informazione e di sensibilizzazione dei lavoratori.
In Francia le grandi mobilitazioni non sono episodi occasionali. Già vi erano stati duri scontri contro la riforma delle pensioni, a più riprese, fino al 2010, e nel 2006 il movimento degli studenti aveva ottenuto una significativa vittoria contro il “contratto di primo impiego” del governo Villepin. A questo proposito si segnala che già in quell’occasione il governo era ricorso al famigerato art. 49-3 della Costituzione, la stessa procedura richiesta ora, che permette al governo di varare una legge senza dibattito, nè voto in Parlamento.
Nel 2005 una violenta rivolta urbana nei quartieri popolari si protrasse per quattro settimane. Protagonisti furono i giovani arabi e neri, bersaglio delle campagne sulla sicurezza e vittime privilegiate di disoccupazione e precarietà. E’ questo un settore giovanile che vive una profonda frattura sociale, derivata dalla suddivisione razzistica operata nei quartieri popolari e visibile nell’attuale movimento. Da qui originano le difficoltà nel ricomporre il fronte di lotta, dovute alla mancanza della consapevolezza di appartenere alla stessa classe.
Simili sono le difficoltà originate dalla pesante ristrutturazione di industria e servizi. Anche qui la balcanizzazione del mercato del lavoro (precarietà, subappalti, dequalificazioni…) ha generato un disorientamento politico ed organizzativo non risolto dal movimento sindacale.
La mobilitazione generale contro la loi travail, i cortei, gli scioperi, le occupazioni delle piazze con l’obbiettivo di “bloccare il paese” contro l’autoritarismo del governo, da una lato è tesa a smascherare le menzogne sui presunti benefici generali derivanti dall’introduzione della legge, puntando alla debolezza politica del governo Valls-Hollande, che riafferma la propria autorità ricorrendo alla repressione: con l’uso massiccio dei soliti media asserviti, apre alla criminalizzazione del movimento, mentre prolunga lo stato di emergenza. Oggi (15.6) Hollande, agitando le violenze del giorno prima, dichiara di voler imporre il veto totale al diritto di manifestare.
Dall’altro questa grande mobilitazione sembra non volersi riconoscere nell’occasionale convergenza delle lotte o nell’altrettanto occasionale assembramento di cittadini insoddisfatti, quanto invece interrogarsi sulle forme di organizzazione e di rappresentanza politica dei proletari (politica, non elettorale) e sul progetto di società, attraverso una pratica di massa realmente capace di trasformare la propria condizione sociale, col superamento del sistema di sfruttamento capitalista. Chiaro che il successo di simili intenzioni non è dietro l’angolo, tuttavia il movimento francese è riuscito per ora a rompere il clima di isolamento e paura seguito agli attentati di novembre, rilanciando le forme di lotta più dure e ricostruendo la consapevolezza della centralità e della forza concreta dei lavoratori.
Al centro della scena sembra essere al momento la CGT, che punta determinata a farsi riconoscere quale principale interlocutore dal governo. Sia chiaro: la CGT non è la CGIL, e questa è la differenza più evidente tra la situazione francese e quella italiana. La linea collaborazionista della CGIL con i governi ed i padroni non porterà mai alla difesa intransigente e determinata delle rivendicazioni dei lavoratori: la loro “cogestione” ha portato alla rinuncia alla lotta. Tutt’altro è il presupposto della scelta di classe di alcuni sindacati (in primis la CGT) in Francia, considerando
che lo sviluppo del movimento di classe e lo schieramento dell’azione sindacale rappresentano oggi i due poli che determineranno lo sviluppo della lotta.
Questa grande mobilitazione sembra voler rilanciare la discussione sull’iniziativa politica di classe e la lotta anche in Italia. Se ne è avuta l’impressione anche nel clima politico durante il recente sciopero dei metalmeccanici per il rinnovo contrattuale. Le parole di Landini, segretario FIOM, dal palco di Vicenza suggerivano l’idea che la pressione esercitata su Confindustria abbia il solo scopo di poter tornare al tavolo delle trattative a rilanciare la parola d’ordine della concertazione. A questo fine ha usato anche un certo tono “autocritico”, buono per gli applausi di rito, riferito agli accordi sulla riforma pensionistica. Manco una parola invece su tutte le altre battaglie perse perchè non combattute (e visto come sono andate le cose in Francia, il Jobs Act sembra a questo punto la madre di tutte le battaglie perse).
In casa nostra il problema centrale sembra proprio questo. Lottare da noi è difficile. La sfiducia, la rassegnazione che pesano sulla classe operaia italiana sono dovute con ogni evidenza e in gran parte ai confederali. La loro strategia sembra volta a smantellare ogni residuo di identità che la classe lavoratrice ancora detiene.
Più che un’arrendevolezza “riformista” socialdemocratica, sembra trattarsi di una svendita vera e propria, la “co-gestione” in perfetto stile neoliberista americano.
Per questo le lotte in Francia sono così importanti: la loro lotta è anche la nostra e di tutti i lavoratori, fuori da ogni confine. Insegnano a costruire obiettivi unitari che favoriscano l’unità dei lavoratori, che il conflitto va generalizzato e chiamano in causa non una singola vertenza ma l’intero sistema di sfruttamento capitalista. Invitano a liberarci dei sindacati inutili e dei loro funzionari corrotti e codardi, per ricostruire le nostre organizzazioni di lotta.
Luciano Orio