Un nuovo libro ricostruisce l’eccidio di Malga Silvagno. Ragioni di opportunità politica alla base dell’oblio lungo quasi 70 anni.
Settembre 1943. Si formano i primi distaccamenti partigiani. Anche nell’alto vicentino gruppi di giovani ventenni si danno alla macchia e raggiungono i monti vicini. Alcuni giovani renitenti cattolici, dai paesi di pianura, intorno a Bassano del Grappa, raggiungono la zona dell’Altopiano di Asiago e si attestano in una malga, Malga Silvagno. Sono giovani, anche giovanissimi, indirizzati alla macchia da conoscenze di paese, a contatto con le organizzazioni provinciali clandestine a guida badogliana che, come altre, stanno approntando le prime forme di lotta armata.
A Malga Silvagno arrivano anche, con modalità diverse, quattro militanti comunisti di vecchia data, non più giovani, uniti dalla determinazione nella lotta al nemico nazi-fascista. Chi sono?
Giuseppe Crestani, “Bepi”, capitano della Brigata Garibaldi nella guerra di Spagna, ferito nella battaglia dell’Ebro, rifugiato in Francia e internato in diversi campi di concentramento francesi, rimpatriato nel dicembre ’41 e inviato in confino a Ventotene, dove viene liberato il 29 agosto del ’43. Pochissimi giorni a casa (è nativo di Conco nell’altopiano di Asiago), poi, in seguito alla nuova situazione determinata dall’armistizio con gli anglo-americani, viene destinato, dal partito, all’organizzazione armata clandestina nella montagna di casa.
In ottobre giunge, dal Friuli, Ferruccio Roiatti, “Spartaco”, attivo propagandista comunista, militante del “Soccorso Rosso”, organizzatore operaio nel settore tessile, arrestato nel ’34 e condannato ad otto anni di reclusione per il reato di “organizzazione e direzione di associazione comunista”, inviato presso lo stabilimento penale di Civitavecchia dal quale viene dimesso per buona condotta nel ’37. Tornato a Udine, è in regime di libertà vigilata per due anni; fugge ed è ripreso e nuovamente incarcerato. Passerà gli anni successivi da un carcere o campo di internamento all’altro, finché viene tradotto alle isole Tremiti, dalle quali è liberato nel settembre ’43 in seguito alla mutata situazione politica. Appena a casa, con il fratello, organizza i primi nuclei di resistenza armata in Friuli, poi è chiamato dal partito in Veneto.
Il terzo comunista, Tomaso Pontarollo, muratore, minatore, emigrato più volte in Algeria, viene arrestato nel ’36 dalla questura di Pola, accusato di svolgere “attività comunista” tra i lavoratori delle miniere e inviato dal Ministero dell’Interno al confino per cinque anni nella Colonia di Ventotene. Non avendo fornito prove di “ravvedimento” e dimostratosi anzi “tenace e convinto sovversivo”, Pontarollo viene trattenuto nella Colonia di Ventotene e dopo un anno trasferito al campo di concentramento di Pisticci, da cui è rilasciato nel settembre del ’43.
Ai tre precedenti si aggiungerà un quarto militante comunista, “Zorzi”, del quale non è stato possibile accertare l’identità. Per diversi ricercatori storici si tratterebbe di un “vecchio antifascista”, “deferito al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato”, di probabili origini veneziane.
Tramite le proprie conoscenze antifasciste, il Comando regionale delle brigate Garibaldi e la federazione vicentina del PCI i quattro riescono ad entrare in possesso delle armi di cui necessitano per intraprendere l’iniziativa armata.
Ma gli interessi delle organizzazioni politico-militari in zona sono contrastanti. Questi sono rappresentati dal CMP (Comando Militare Provinciale) nominato dal CLN e a guida badogliana, dal gemello CMP “Dalla Pozza”, che raccoglie componenti di varia estrazione politica e da un gruppo di ufficiali del Distretto Militare di zona. Sono attive anche la Federazione vicentina del PCI ed il Comando triveneto delle Brigate “Garibaldi”. Ognuna di queste organizzazioni invia dei propri uomini a seguire e dirigere la vita del distaccamento.
I contrasti sorgono immediatamente ed inevitabili, alimentati ad arte dagli agenti badogliani, dichiaratamente anticomunisti, che soffiano sul fuoco rappresentato dalla terribile minaccia “rossa”. Sono, inizialmente, divergenze di ordine disciplinare o morale, ma che si acuiscono sempre più. La componente cattolico-moderata viene portata a credere che i quattro comunisti siano in realtà dei delinquenti comuni datisi alla macchia per vivere di rapine ed omicidi. Le prime iniziative armate, la duplice eliminazione di un elemento ultrafascista e di un gerarca della zona, secondo la strategia di attacco comunista, provocano la reazione dei “moderati”, in particolare gli ufficiali badogliani, più inclini ad una strategia “attendista”. Questi, attraverso il loro agente-provocatore, pongono ai giovani apolitici presenti a Malga Silvagno la questione della risoluzione definitiva dei contrasti per la sopravvivenza del distaccamento ed essi decidono di passare all’azione: approfittano del momentaneo allontanamento di Crestani e Roiatti, immobilizzano ed incappucciano gli altri due comunisti, li sottopongono ad un violento interrogatorio al termine del quale li sopprimono, a sangue freddo. Successivamente si recano nel bosco vicino a tendere un agguato mortale ai due che stanno rientrando.
Questa è la storia, corredata di una documentazione dettagliata ed inoppugnabile, dell’eccidio dei quattro partigiani comunisti del gruppo di Fontanelle di Conco, come ricostruita recentemente da Ugo De Grandis nel suo “Malga Silvagno – il giorno nero della resistenza vicentina”, che si avvale di documenti riemersi di recente da uno dei tanti “armadi della vergogna” che ancora contengono tanta parte della storia del nostro paese.
La federazione vicentina del PCI condurrà due inchieste sulla tragica vicenda, individuando gli esecutori materiali e le responsabilità di agenti provocatori e mandanti che, con una martellante campagna diffamatoria, cercavano di screditare la figura dei quattro comunisti, per assolvere chi si era macchiato di un tale crimine. Anche la Procura militare avrebbe potuto avviare un’inchiesta ufficiale, visti gli elementi a disposizione, ma la tenace difesa degli antifascisti badogliani e cattolici trovò un alleato nel clima di “unità nazionale” seguito alla liberazione.
Inoltre, l’epilogo di questa “pagina nera” non si ferma qui. Un rastrellamento condotto dai nazifascisti a Malga Silvagno, una decina di giorni dopo l’eccidio, porterà alla cattura di quattro giovani partigiani, tre dei quali fortemente indiziati dell’assassinio, che verranno fucilati a Marostica.
Nel clima unitario del post-liberazione, come si poteva sostenere che dei partigiani erano caduti per mano di altri partigiani, poi fucilati dai nazifascisti?
Questa vicenda è doppiamente triste, perché, alla fine, i quattro eroici combattenti comunisti risulteranno essere niente più che quattro scomodi cadaveri da sacrificare alla “ragion di stato”.
E così il comandante Garibaldino “Bepi” Crestani non venne nemmeno beneficiato della qualifica di partigiano, nessuno di loro quattro ebbe una lapide, un fiore, un ricordo o una commemorazione a ricordare il loro sacrificio. La vicenda, pur presente nell’animo di molti per tanti anni, non valse alcuna inchiesta da parte della Procura, né vi fu, da parte del Partito Comunista, la volontà di giungere ad una verità ufficiale sull’episodio. La linea togliattiana del PCI, successiva alla svolta di Salerno, sacrificava le aspirazioni rivoluzionarie in nome di una linea politica legalitaria volta a fare del PCI un partito di governo. La Resistenza pertanto non poteva essere un movimento connotato da divisioni interne e contrasti anche feroci, ma un movimento unitario di forze antifasciste, tutte, anche quelle monarchiche, ugualmente degne e capaci di porsi alla direzione della nuova società.
Un anno dopo la liberazione, proprio in nome di questa pacificazione nazionale, il provvedimento di amnistia, voluto da Togliatti, spalancò le porte delle carceri a migliaia di fascisti, restaurando l’ordine precedente nella magistratura e nei corpi di polizia. Seguì un’offensiva antipartigiana che portò in carcere o in esilio migliaia di ex-combattenti.
La pagina nera di Malga Silvagno è, se possibile, ancor più nera per il silenzio omertoso che peserà su quei fatti: ancor oggi i nomi di Crestani, Roiatti, Pontarollo e “Zorzi” non compaiono negli elenchi dei caduti delle formazioni partigiane e anche l’ANPI li ricorda solo in una nota breve e ambigua.
Forse sarà la Storia, pur se a distanza di così tanti anni, a rendere loro il dovuto riconoscimento.
Luciano Orio