26 Ottobre 2018
Alcune riflessioni di M. D’Acunto su “Industria 4.0”
16 Gennaio 2018
L’etica del proletariato
Attualmente c’è confusione sul ruolo del Partito Comunista nel movimento operaio. I comunisti tendono, da un lato, a sovrastimare il ruolo del partito e, dall’altro a sottostimarlo. La sovrastima consiste nel considerare spesso il partito come l’unica forza della classe. Per qualche ragione si ritiene che sia compito del partito costruire i sindacati, gli organi della dittatura del proletariato, etc.. E c’è l’altro estremo. La massa, gli stessi lavoratori capiranno “di chi è la colpa” e “che fare”, sicchè il partito dovrebbe “maturare” in seno al movimento proletario spontaneo.
Durante la “primavera russa” di Donetsk, un compagno invitò seriamente a creare i consigli per implementare le disposizioni della Dichiarazione di Sovranità della Repubblica popolare di Donetsk. Bisogna ricordare che i primi consigli (soviet) vennero organizzati dai lavoratori in sciopero durante la Prima Rivoluzione Russa. Erano comitati di sciopero che controllavano le lotte relative agli scioperi. In altre parole, gli organi della dittatura del proletariato nascono dalla lotta reale, e non possiamo sapere in anticipo che forma assumeranno nel futuro. Pertanto, il peggior errore è quando i comunisti tentano di adattare la vita a degli schemi morti.
Però queste idee “rivoluzionarie” sorgono in generale nei periodi di convulsione sociale. In tempi relativamente tranquilli, le opinioni dei partigiani del movimento operaio spontaneo sono ampiamente diffuse, perfino se l’attività di questo movimento è pressochè nulla. Nell’articolo “Il giornale come organizzatore collettivo” ricordavamo come siano passati più di cento anni dalla nascita dell'”Economicismo”, però i suoi sostenitori sono ancora presenti tra i comunisti. Sono portatori di un’ampia gamma di proposte che vanno dalla “maturazione del partito” fino alla creazione di un'”organizzazione di lavoro”. Senza dubbio, in tutto ciò che lo riguarda, al partito viene affibiato un ruolo poco invidiabile: invece di dirigere il movimento spontaneo della classe lavoratrice, si vede costretto a seguirlo.
A suo tempo il colpo decisivo all’Economicismo fu inferto dai lavori di Vladimir Lenin “Da dove cominciare?” e “Che fare? Problemi scottanti del nostro movimento”, mentre il marxista ungherese Gyorgy Lukacs sviluppò le idee di Lenin nel suo libro “Storia e coscienza di classe”. Lenin affermò che con le proprie forze la classe lavoratrice riesce a sviluppare solamente una coscienza di tipo sindacale. In quanto alla coscienza di classe in se stessa, essa può essere solamente introdotta dall’esterno, veicolata dal partito politico. A sua volta, Lukács paragonò il partito alla testa, nata dal corpo della classe lavoratrice ed il cui compito è vedere almeno un passo davanti di esso.
Non è esagerato affermare che il destino di ogni rivoluzione socialista dipende dalla maturità ideologica del proletariato. L’indicatore di tale maturità è l’esistenza della coscienza di classe tra i lavoratori, poichè il proletariato agisce quando è cosciente della sua posizione. Occorre tenere a mente che la produzione delle merci nel capitalismo differisce dalle forme precedenti per il fatto che la stessa forza-lavoro diventa una merce. Senza la consapevolezza della posizione del proletariato sotto il capitalismo, non ci si renderà mai conto della necessità di cambiare lo stato delle cose esistente. I lavoratori moderni sono coscienti di essere solamente un prodotto vendibile al mercato al pari del vestiario, delle auto o dei generi di prima necessità? Chiaramente no. Oggi, il proletario ha una coscienza puramente borghese, la quale si manifesta non nella lotta contro il sistema, bensì nello sforzo per occupare il posto della borghesia, nell’accumulare denaro, nel diventare ricco e cominciare anch’egli a sfruttare. Ciò continuerà fino a che il Partito Comunista non comprenderà il suo vero ruolo in seno al movimento operaio, che consiste nell’introduzione della coscienza di classe nel proletariato. Sicuramente Lukács aveva ragione quando diceva che la coscienza di classe è l'”etica” del proletariato.
Gli “Economicisti”, e con loro i menscevichi, credevano erroneamente che la coscienza di classe sia una pura continuazione della psicologia di classe. Da ciò discende la loro adorazione del movimento operaio spontaneo. L’eminente marxista sovietico Mikhail Lifshitz richiama l’attenzione sul fatto che, in ogni caso, è impossibile confondere i due concetti. “La psicologia di classe del proletariato, come prodotto della vita di fabbrica non deve essere confusa con la teoria del socialismo proletario, che, come qualsiasi teoria discende da una riflessione dei fatti obbiettivi della realtà esterna e soprattutto della storia umana”. (Mikhail Lifshitz, «Dialogo con Ewald Ilyenkov (il problema dell’ideale).
Poichè la coscienza di classe del proletariato coincide con la teoria del socialismo, il partito non agisce como portatore solamente dell’ideologia ma anche di conoscenza scientifica. A sua volta, l’ideologia come forma di coscienza sociale esisterà fintantochè esisterà una divisione classista del lavoro. “Solo una forma direttamente sociale del lavoro e l’abolizione della divisione classista del lavoro permetteranno alla coscienza sociale di non esser più un’ideologia, poichè sarà liquidata la sua base oggettiva e, pertanto la sua pretesa ideologica” dice Valery Bosenko in “La dialettica si vendica del suo abbandono”. Secondo Bosenko la società senza classi è “il prodotto del materialismo pratico”, e pertanto non è un’ideologia. Con la transazione a questa società l’ideologia borghese sarà distrutta, e l’ideologia in generale affloscerà.
Già ai loro tempi Marx ed Engels affermavano che il comunismo era diventato una scienza e che occorreva studiarla. Quindi, il partito che si definisce comunista deve assumersi la piena responsabilità di avvicinarsi alla teoria del socialismo come alla coscienza del proletariato. I comunisti dovranno svolgere un gran lavoro per l’introduzione della coscienza di classe. Il fatto è che nell’Unione Sovietica lo studio del Marxismo svanì e la situazione attuale in questo campo è ancora peggiore.L’insufficiente alfabetizzazione teorica dei comunisti attuali viene alla luce in particolar modo nella discussione sulle cause della caduta del socialismo in URSS. Sicuramente è possibile spiegare quegli accadimenti con la degenerazione della leadership e l’incapacità di riprodurre un’elite del PCUS sufficientemente preparata, ma questo modo di porre la questione non è marxista, per dirla gentilmente. Questo è il positivismo più puro.
Alla fine del secolo XIX, il russo Nikolai Mijailovski sviluppò la teoria dell’eroe e della moltitudine, secondo la quale lo sviluppo della storia è determinato dalla volontà dei grandi uomini. In risposta, George Plejanov scrisse un articolo, “Sulla questione del ruolo della personalità nella storia”, dove afferma: “E’ necessario riconoscere che attualmente la causa finale e più generale del movimento storico dell’umanità risiede nello sviluppo delle forze produttive che determina i conseguenti cambiamenti nelle relazioni sociali tra gli uomini”. In quest’ottica possiamo osservare come la sconfitta del socialismo non è spiegabile con il comportamento dei “grandi uomini” bensì con il “cambiamento delle relazioni sociali.
Gli accadimenti dell’inizio degli anni ’90 solamente consacrò sul piano istituzionale i “risultati” degli anni ’50 e ’60. Il principale “successo”, certamente, fu la cosiddetta riforma Kosiguin, la quale prevedeva un ampliamento dell’indipendenza economica delle imprese, in altre parole la autogestione finanziaria. In occidente tale riforma simile fu battezzata con il nome dell’economista sovietico Yevsey Lieberman, il quale, pochi anni prima della sua adozione ne aveva delineato i caratteri nell’articolo, pubblicato sulla Pravda, dal titolo “Pianificazione, profitto e incentivi”. A suo dire il criterio principale dell’impresa è il profitto, in quanto utile “per l’opera di costruzione del comunismo”. Oggi è ovvio che tutto ciò ha portato direttamente alla restaurazione del capitalismo.
Si rendeva conto la leadership sovietica di quali fossero le conseguenze minacciate da queste decisioni? Con ogni probabilità no, a causa di un analfabetismo teorico totale. A differenza dei leader seguenti, Stalin aveva perfettamente compreso che l’obbiettivo del socialismo è superare la commerciabilità (si veda “Per una critica della base economica dello stato”). Ma negli anni successivi l’economia sovietica si sviluppò “alla Lieberman” e non “alla Stalin”. In ogni frangente si adattò semplicemente la forma al contenuto. E non avrebbe potuto essere diversamente,perchè l’obiettivo della industria sovietica era di produrre la maggior quantità di beni possibile. A sua volta, una maggiore commerciabilità è una minaccia mortale per il socialismo.
Uno dei primi segnali di allarme sulle nuove tendenze dell’economia sovietica fu Ernesto Che Guevara (si veda “Sul sistema di finanziamento degli investimenti”). Egli criticò in particolare criticò duramente l’affermazione di Lieberman sullo stimolo materiale come principale incentivo. “Non siamo d’accordo con l’enfasi che Lieberman pone sull’ineresse materiale (come leva economica)”, scriveva il Che, “però la sua preoccupazione per le derive che il concetto di “adempimento del piano” subisce con lo scorrere del tempo ci sembra corretta. Le relazioni tra le imprese e i dipartimenti centrali assumono forme abbastanza contraddittorie, e i metodi utilizzati dalle imprese per generare profitto a volte presentano caratteristiche molto lontane dalla nozione di moralità socialista”.
Con un po’ di audacia, Che Guevara può essere considerato al livello di Lenin e Lukács, per comprensione del problema della coscienza di classe. Nel lavoro citato, egli delinea abilmente la relazione tra coscienza e sviluppo della produzione. Nella sua visione, in Cuba come nel resto del campo socialista, era necessario cominciare ad affrontare il più presto possibile il tema dello sviluppo di una nuova coscienza in sintonia con le nuove forme date ai rapporti di produzione. Spingendosi oltre, nonostante la coscienza sia un prodotto delle relazioni esistenti, il suo sviluppo in certi momenti può superare il livello di sviluppo delle forze produttive. Pertanto, Che Guevara parla della necessità di educare alla coscienza come di un fattore fondamentale nella costruzione del comunismo.
E’ ovvio che la riproduzione (e, dopo la riforma Kosiguin, il considerevole rafforzamento) delle tendenze capitaliste nella produzione conduca alla riproduzione della coscienza borghese. E’ questo l’evento che si rende palese nel momento della “perestroika” di Gorbachov, Yakovlev, Yeltsin e di chi li ha seguiti. Essi sono sicuramente degli impostori, ma non dobbiamo sovrastimare il loro ruolo nel collasso dell’URSS. La produzione mercantile, come un setaccio, separa gli indesiderabili per trattenere gli agenti che le sono necessari. Non solo i leader, ma tutti i 20 milioni di iscritti al PCUS portarono le relazioni monetario-mercantili alla loro logica conclusione: la restaurazione del capitalismo.
In contrasto con l’autofinanziamento sovietico, uno dei leader della Rivoluzione Cubana propose un sistema di finanziamento di bilancio per risolvere il problema di elevare gli standard di produzione. Il vantaggio consiste nel favorire un considerevole aumento della formazione professionale, che nel tempo dia luogo ad un corrispondente aumento del livello tecnico generale. “Bisogna anche prendere in considerazione”, continua, ” che sarà facile – con la politica dei sussidi – trasferire gli studenti che abbiano elevato le loro qualifiche ad un altro posto di lavoro ed eliminare gradualmente le aree produttive dove sia predominante il lavoro vivo, al fine di creare imprese maggiormente produttive, più rispondenti all’idea basica di transizione al comunismo, di una società produttivamente sviluppata, al soddisfacimento delle necessità primarie umane.
Che Guevara era convinto che lo svolgimento del proprio compito non sia semplicemente una fonte di guadagno per il lavoratore, come lo era nel sistema di autofinanziamento, ma un suo preciso dovere sociale. Nel raggiungere questo obbiettivo il partito svolge un ruolo primario. In tal senso, non solo è portatore della coscienza di classe, ma anche la avanguardia. I comunisti, attraverso l’esempio personale, devono dimostrare la propria disponibilità a svolgere i loro compiti sociali. Come è noto, Lenin prese parte ai “subbotnik”, e il Che sperimentò personalmente nuovi macchinari per la produzione. Nel futuro il proletariato seguirà il partito che sarà pronto ad aiutarlo nell’assolvimento del suo compito storico. Che lo aiuti, non che decida al suo posto.
Oggi il movimento comunista si trova in una profonda crisi provocata dalla sconfitta del socialismo nell’URSS e nei paesi del campo socialista. Ma la sconfitta politica ed economica non è terribile come la sconfitta teorica. Se il cervello del proletariato è pieno di ogni ciarpame (positivismo, ad esempio), anche in presenza di una situazione rivoluzionaria, non può minimamente opporsi ad una società in decomposizione. Ma sono proprio le questioni teoriche che un partito può e deve risolvere nell’ambito delle condizioni attuali di una cieca reazione.
Stanislav Retinsky
Segretario del Comitato Centrale del KPDNR (Partito Comunista della Rep. Popolare di Donetsk
17 Novembre 2017
Lenin e la rivoluzione russa
Lenin e la rivoluzione russa
Ogni civiltà deve fare quello che può dei suoi grandi uomini, per assimilarne le idee secondo la propria mentalità.
Nelle leggende tagiche e kazache, Lenin era alto come le colline, come le nubi; secondo il folklore dungano egli era più splendente del sole e non conosceva la notte. Gli oirati dicono che egli avesse un raggio di sole nella mano destra, e un raggio di luna nella sinistra; e la terra tremava sotto i suoi piedi. Per gli uzbechi, Lenin era un gigante, capace di scuotere la terra e di muovere grandi rupi mentre cercava la prosperità nascosta fra le colline; e sapeva risolvere gli indovinelli più difficili. Nelle leggende kirghise, egli aveva un anello magico, con l’aiuto del quale rovesciò il potere del male e liberò i poveri dai torti e dall’ingiustizia. Si dice che si arrivato in Armenia su un cavallo bianco per mettersi alla testa del popolo. In un’altra leggenda, Lenin era un titano, in lotta contro Asmodeo, l’amico dei ricchi e dei privilegiati, il peggiore nemico dei poveri. Asmodeo tentò di uccidere Lenin, ma la luce che usciva dagli occhi dell’eroe lo mise in fuga. Lenin allora montò a cavallo di un’aquila e volò fino al Dagestan, dove mosse guerra ai ricchi, e infine tornò di nuovo a volo nelle regioni fredde a scrivere libri di verità per il popolo. Per gli ostiachi del nord, Lenin era un grande cacciatore di foche, che uccise i ricchi mercanti di pellicce e che favorì i poveri; non altrimenti, i nenci concepivano Lenin come il più esperto dei marinai, che aveva vinto i nemici in combattimento, si era impadronito dei loro cani e delle loro renne, e li aveva divisi tra i poveri. I cosacchi di Solochov immaginarono Lenin come un cosacco del Don.
Nella Russia prerivoluzionaria, come nell’Occidente cattolico durante il Medioevo, la Chiesa pensava che le idee astratte dovessero essere rese concrete mediante immagini, icone, stendardi, reliquie e altri oggetti, accessibili alla sensibilità dei contadini incolti. I bolscevichi hanno denunciato la mistificazione con cui la Chiesa tentava di attribuire un potere miracoloso alle sue immagini e alle sue reliquie, e, indirettamente, a se stessa; ma si sono valsi della stessa tecnica per diffondere le idee, poiché si rivolgevano allo stesso popolo. E’ quindi necessario conoscere lo sfondo storico del linguaggio usato dalla propaganda bolscevica, che altrimenti potrebbe essere considerato ingenuo e puerile, e riconoscere che, se è stata usata la tecnica della Chiesa ortodossa, l’uso che ne è stato fatto è ben diverso. Lenin non è adorato; nessuno pretende che ci sia alcunché di miracoloso nel processo scientifico con cui sono conservate le sue spoglie; il suo corpo nel mausoleo della Piazza Rossa, e il suo ritratto che ha sostituito quello dello zar sulle pareti delle case, offrono quell’elemento di concretezza accessibile alla mente del contadino che è sempre dominata, in ogni giorno della sua vita, dagli oggetti materiali e da questi soltanto.
Ma sono le parole di Lenin, le idee di Lenin che fanno testo nell’Unione Sovietica.
Tratto da “Lenin e la rivoluzione russa” di Christopher Hill
La rivoluzione russa
97 anni fa la Rivoluzione russa
Una breve rilettura degli avvenimenti che portarono all’Ottobre. Il ruolo fondamentale del partito dei rivoluzionari bolscevichi
“Spronando il ronzino della storia fino a farlo schiantare”. Così il poeta Majakovskij celebrò la Rivoluzione d’Ottobre, in uno dei suoi versi più emblematici. Un tributo all’opera di Lenin e dei bolscevichi che, quasi concentrando i tempi della storia, seppero cogliere tutte le contraddizioni che si presentavano e compiere la loro Rivoluzione, la loro opera d’arte. Rileggiamo brevemente quegli avvenimenti.
Nel 1914 il mondo è fuori controllo, scosso da uno stato di guerra generalizzato su scala planetaria. Ha inizio il grande macello imperialista. La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, ovvero una sciagura insopportabile per il popolo, mentre rappresenta, per i padroni imperialisti, nientaltro che la strategia più opportuna per uscire dalla crisi economica e conquistare nuovi popoli e nuovi territori allo sfruttamento globale. Tuttavia la situazione di guerra presenta anche una grave incognita: la guerra infatti favorisce la rivoluzione. A quel tempo, la Russia, alleata di Francia, Inghilterra, Giappone, entrava in guerra con la Germania.
Dopo due anni e mezzo di guerra, nel 1917, la Russia aveva subito perdite enormi e senza alcun risultato. Le truppe erano esauste, mal equipaggiate e ancor peggio guidate. Al fronte, milioni di soldati venivano uccisi e mutilati, senza capire il perchè di quella guerra. Pensavano fosse un capriccio dello zar Nicola II. Poi si resero conto dell’inettitudine e incompetenza del loro Comando supremo e finirono col chiedersi per quale motivo dovevano continuare a sacrificare le loro vite. Nel solo 1916 si registrarono più di un milione e mezzo di diserzioni. L’intera popolazione era colpita da una inflazione galoppante che impediva l’accesso ai più semplici beni di consumo. I salari dell’industria erano infimi. Il governo aveva i giorni contati.
Il 12 marzo 1917 un movimento di massa spontaneo di operai e soldati di Pietrogrado rovesciò il governo e chiese ed ottenne l’abdicazione di Nicola II. La dinastia dei Romanov, dopo trecento anni di regno, scomparve. Scrisse ancora Majakovskij: “Come una vecchia cicca masticata / Abbiamo sputato la loro dinastia”. Venne istituito un governo provvisorio, composto dai membri dei partiti che già avevano la maggioranza nella Duma di Stato e che nulla avevano fatto per la rivoluzione, che semplicemente occuparono i posti lasciati vuoti. Ma il vero potere nella capitale Pietrogrado si concentrava nel Soviet, organo rivoluzionario dei deputati degli operai. I soviet, assemblee di delegati delle fabbriche e delle organizzazioni operaie, erano le sole istituzioni democratiche esistenti nel paese. Essi nascevano spontaneamente e avevano le loro radici nell’antica tradizione democratica e di autogoverno popolare. I soviet si andavano rapidamente diffondendo anche nell’ esercito e nella marina e si estendevano a Mosca e ad altre città di provincia. Il Soviet di Pietrogrado assunse di fatto le funzioni di un secondo governo, che emanava proprie disposizioni, ben più ascoltate tra i lavoratori e i soldati di quelle del governo provvisorio. Si introdusse la libertà di stampa e di opinione, si liberarono i prigionieri politici ed altri tornarono dall’esilio. Tra questi, Lenin. Giunse ad aprile e subito attaccò il governo provvisorio, chiedendo la fine della guerra, la distribuzione della terra ai contadini e il passaggio dei poteri ai soviet. Questo programma conferì grande prestigio e seguito al partito bolscevico, da lui rappresentato, che venne però ben presto messo fuori legge dal governo provvisorio, ricostituitosi con gli elementi dei partiti rappresentati nei soviet, disposti a continuare la guerra. Kerenskij fu nominato primo ministro. Lenin fu costretto a nascondersi.
La guerra continuò, senza alcun entusiasmo, mentre guadagnava un crescente favore lo slogan dei bolscevichi, “pace, pane e terra”. L’esercito al fronte andava sfaldandosi, mentre il governo provvisorio si indeboliva sempre più, minacciato da complotti controrivoluzionari e privo dell’unico potere reale esistente in Russia, i soviet degli operai e dei soldati. Il governo aveva promesso la distribuzione della terra ai contadini e la convocazione di una assemblea costituente, ma non aveva dato nè l’una nè l’altra, impegnandosi solo in generici appelli patriottici per la continuazione della guerra.
I bolscevichi raggiunsero la maggioranza nel Soviet di Pietrogrado e nell’esercito ed il 7 ed 8 novembre, vincendo la scarsa resistenza del governo provvisorio, presero il potere. Venne formato un governo alla guida di Lenin, che emanò subito nuove leggi per distribuire la terra ai contadini e per nazionalizzare le industrie più importanti, mentre annunciava l’intenzione di mettere fine alla guerra. Kerenskij lasciò la capitale su un’auto con bandiera americana.
Questi i principali avvenimenti che portarono allo scoppio della rivoluzione russa. Una breve traccia che ci permette di scendere più nel dettaglio su uno degli aspetti più importanti: la costruzione del partito rivoluzionario.
Il partito bolscevico e le caratteristiche che lo differenziano dagli altri partiti socialisti.
Con lo sviluppo capitalistico di inizio ‘900, e con lo sviluppo quindi di una classe operaia urbana, si apriva in Russia la possibilità di una rivoluzione socialista. Continuare a pensare al socialismo russo sulla base delle comunità rurali significava fare il gioco della reazione; il capitalismo era ormai ampiamente sviluppato, anche nelle comunità rurali, che i contadini ricchi dominavano e il passaggio al socialismo era possibile solo con una rivoluzione diretta contro lo zarismo e la borghesia. Non erano più sufficienti il rovesciamento dello zarismo e la concessione di riforme democratiche, perchè queste “non avrebbero migliorato le condizioni dei lavoratori, ma solo le condizioni per la loro lotta contro la borghesia”. L’idea che i contadini avessero una loro funzione indipendente nella rivoluzione non aveva senso, perchè essi erano già divisi in ricchi e poveri e gli interessi dei primi coincidevano con quelli della classe media, mentre i nemici dei contadini poveri erano gli stessi degli operai. Lenin e il partito bolscevico compresero che la classe operaia era in grado di prendere la guida di tutti gli elementi contrari all’assolutismo zarista, senza lasciarsi trainare dai partiti liberali o dall’ala riformista del partito socialdemocratico, i futuri menscevichi.
Il partito socialdemocratico russo, fondato nel 1898, era membro della Seconda Internazionale Socialista, fondata nove anni prima per promuovere la lotta e la solidarietà internazionale della classe operaia. Partito prevalente, all’interno dell’ Internazionale , era il partito socialdemocratico tedesco, numericamente più forte e con una più estesa rappresentanza parlamentare. Era, tuttavia, il partito che nell’agosto 1914 votò i crediti di guerra al governo del Kaiser e che andava relegando in un futuro sempre più lontano l’obiettivo del socialismo, per interessarsi troppo dell’attività parlamentare e sindacale, dalle quali poteva ottenere concessioni economiche e voti. Ciò comportava certo una rapida espansione numerica del partito, ma anche una progressiva alterazione della teoria marxista. I capi erano sempre più interessati a conservare i loro posti ben retribuiti nel partito e nei sindacati, la cui esistenza dipendeva dalla conservazione del sistema capitalista.
Lenin ed i bolscevichi pensavano invece ad un’opposizione necessariamente rivoluzionaria, contro un governo assoluto, fortemente centralizzato, burocratico e repressivo. Con Lenin, i bolscevichi appresero della tradizione rivoluzionaria russa. I gruppi clandestini, così importanti nel lavoro illegale contro l’autocrazia, vennero saldati insieme in un unico partito, unito da una teoria comune, considerato come il nucleo dirigente di “rivoluzionari sperimentati, addestrati professionalmente non meno della polizia”, nucleo attorno al quale sviluppare un movimento operaio di massa.
Le due concezioni completamente diverse e conflittuali dell’organizzazione del partito socialdemocratico si scontrarono all’interno del congresso del partito nel 1903. I menscevichi pensavano ad un partito parlamentare ma, a quell’epoca, in Russia, non vi erano nè parlamento, nè elettorato. I bolscevichi miravano a creare un “partito nuovo”, unito da un accordo completo e consapevole sugli obiettivi fondamentali. Ai primi che puntavano ad un partito parlamentare di tipo occidentale, sommatoria delle volontà dei singoli individui membri, Lenin ed i bolscevichi contrapposero l’idea di un organismo con una volontà unica, che corrispondesse per disciplina ed organizzazione alla fabbrica, fondata sul lavoro collettivo, “organizzata in condizioni di produzione altamente sviluppate dal punto di vista tecnico”. Un partito per la classe operaia, già “preparata all’organizzazione da tutta la sua vita”.
Questo conflitto tra bolscevichi e mescevichi rifletteva non tanto uno scontro tra due concezioni diverse dell’organizzazione e della tattica, quanto l’adesione dei primi alla teoria marxista, basata sull’analisi dello sviluppo della civiltà industriale. L’adesione dei bolscevichi al socialismo scientifico maturava nelle condizioni specifiche della Russia: all’attenta analisi marxista dei rapporti di classe si univa la tradizione rivoluzionaria russa, conseguente alle esigenze della vita in Russia all’epoca dell’assolutismo zarista. Tutte e due queste circostanze ben poco avevano a che fare con il parlamentarismo borghese. I bolscevichi guadagnarono rapidamente la maggioranza in tutte le organizzazioni socialdemocratiche illegali e, quando si giunse alla prova dei fatti, “la scintilla incendiò la prateria”.
Ma la teoria marxista doveva essere introdotta nel movimento operaio russo dall’esterno, dagli intellettuali delle classi agiate, che soli avevano cultura e tempo disponibili per dedicarsi a questi studi. E “senza teoria rivoluzionaria non ci può essere movimento rivoluzionario”. Gli intellettuali erano inevitabilmente attratti dall’influenza dello sviluppo capitalistico in Russia, con relativa possibilità di accedere a comodi impieghi e buona remunerazione. Lenin pertanto fece di tutto affinchè fossero gli operai ad occupare i posti di direzione nel partito. Gli intellettuali erano necessari tra i teorici e gli organizzatori all’estero, ma le loro attività erano prive di autorità se non erano sufficientemente appoggiate da un movimento, da uno strato sociale all’interno del Paese. I lavoratori avevano il compito di controllare i loro dirigenti, utilizzando le loro conoscenze e preparando i nuovi dirigenti, capaci di assimilare gli insegnamenti teorici, mentre gli intellettuali “devono parlarci meno di quello che già sappiamo e devono dirci di più di quello che non conosciamo e che non potremo mai imparare dall’esperienza della fabbrica e del sindacato”. Questa osservazione particolare derivava dalla battaglia politica che opponeva bolscevichi e menscevichi (maggioranza e minoranza) nel partito. La netta separazione della mentalità di chi milita nell’esercito proletario, dalla mentalità dell’intellettuale borghese che fa sfoggio di una fraseologia anarchica. La convivenza tra le due fazioni divenne sempre più difficile, i menscevichi rifiutavano di adeguarsi alle decisioni della maggioranza (bolscevica) e questo sancì la separazione di fatto tra le due correnti.
Questa divergenza di vedute già si era manifestata durante la rivoluzione (democratico-borghese) del 1905, quando i menscevichi teorizzarono che in una rivoluzione borghese la forza principale e dirigente dovessero essere i liberali, che conducevano la lotta per nuove riforne costituzionali. I bolscevichi, invece, in accordo con Marx ed Engels, ritenevano che anche la rivoluzione democratica borghese non può essere portata a termine senza la partecipazione degli “elementi plebei” della società, questo permetteva di dare una direzione autonoma al movimento operaio e di invitare i contadini ad una possibile alleanza. Gli eventi giustificarono questa scelta: la costituzione, concessa nel 1906, si rivelò un bluff: in meno di due anni il diritto di voto nelle elezioni della Duma di Stato venne talmente limitato che il voto di un solo proprietario terriero valeva più di quello di cinquecento operai. La prospettiva di vittoria per questa via non esisteva e del resto le funzioni della Duma vennero talmente limitate che fu necessaria una nuova rivoluzione democratica, nel marzo del 1917, perchè i partiti liberali andassero al potere. Tramite il loro nuovo governo proposero allora di continuare la guerra con la Germania, favorevoli menscevichi e socialisti rivoluzionari, ma la proposta trovò i bolscevichi risolutamente contrari. Essi impugnarono la direzione di una seconda rivoluzione, proletaria, che spazzò via menscevichi e governo nel novembre ’17.
La concezione che i bolscevichi avevano del partito si dimostrò molto più adatta alle condizioni russe; gli anni tra il 1903 e il 1917 furono densi di esperienza pratica per l’applicazione del marxismo alle condizioni di quel Paese. L’analisi degli avvenimenti e la teoria politica da loro elaborata era la più concreta, ed essi facilmente riuscirono a conquistare l’egemonia politica sugli altri partiti nei mesi rivoluzionari del 1917. Grande fu la padronanza della situazione da loro dimostrata: il partito sapeva precisamente ciò che voleva, quali concessioni fare ai diversi gruppi sociali (per primi i contadini), come educare le masse attraverso l’azione di tutti. L’organizzazione del partito permetteva una grande flessibilità di manovra, energia e fermezza nel raggiungimento dell’obiettivo, ciò che procurò loro un grande seguito tra le masse popolari, tale da poter prendere e mantenere il potere. Nel 1917, due terzi dei componenti del partito erano operai.
Caratteristica della rivoluzione russa è che essa ha elevato i poveri e gli oppressi e ha migliorato la loro sorte in ogni aspetto della vita quotidiana. Essa ha dimostrato che la gente semplice (anche in un paese molto arretrato) può assumere il potere e dirigere lo stato in modo molto più efficiente dei “migliori” borghesi. Scriveva Lenin. “……solo allora vedremo quali inesauribili forze di resistenza al capitalismo sono latenti nel popolo…..prima politicamente inerte, languente nella miseria e nella disperazione, senza più fiducia in sè e negli uomini, nel proprio diritto alla vita, nella possibilità di servirsi dell’intera forza di un moderno stato centralizzato”.
Luciano Orio
3 Ottobre 2016
Bassano, cittadina politicamente inagibile….
Ed eccoci ancora qui, a denunciare per l’ennesima volta le mille peripezie, i continui piccoli soprusi a cui è sottoposto chi in città cerchi di mettere in pratica un’idea di politica partecipativa, chi pensa che bisogni reagire ai bombardamenti mass-mediatici con la riflessione collettiva, chi cerchi di farsi megafono delle innumerevoli voci che non “bucano” l’informazione ufficiale, chi cerca di risvegliare lo spirito critico di questa assonnata cittadina di provincia.
Questo lo spirito che animava due attempati compagni i quali, di prima mattina, distribuivano a stupiti sbarbatelli di licei ed istituti tecnici, un volantino che invitava a partecipare ad una serata di contro-informazione sulla tanto vituperata Rivoluzione Bolivariana in Venezuela… ed ecco arrivare la “volante”, forniti i ducumenti, tutto sembrava finito lì. Dopo un mese arriva invece la comunicazione di una multa di 58€ a testa per aver violato l’art.21 comma 2 del regolamento di polizia urbana, che recita:
“È vietata la distribuzione a mano di materiale pubblicitario e volantini di qualsiasi natura sulle aree … antistanti a determinati luoghi pubblici quali scuole in occasione dell’entrata o uscita degli studenti,…fatte salve attività autorizzate o patrocinate da ente pubblico”.
Ed ecco che con quel “di qualsiasi natura”, una norma che giustamente dovrebbe limitare l’utilizzo pubblicitario dei luoghi pubblici diventa magicamente uno strumento per limitare la libertà politica e di espressione; anzi, specifica che queste libertà sono prerogative di chi è espressamente appoggiato da un ente pubblico. Niente male per un regolamento che altrove tratta di spurgo di pozzi neri, di deiezioni sulla pubblica via o di mutande stese ad asciugare sui balconi! Evidentemente la considerazione dei nostri diritti da parte dei nostri amministratori è molto bassa.
Crediamo comunque che questa limitazione delle libertà politiche da parte di un’amministrazione locale non sia casuale per almeno due motivi.
Il primo, e più generale, è che i diritti che non vengono costantemente “utilizzati” e fatti valere nella pratica vengono in un modo o nell’altro azzerati: nessuno si sarebbe azzardato di vietare un volantinaggio a carattere politico davanti ad una scuola 30 o 40 anni fa.
Il secondo è la strisciante deriva autoritaria che attraverso mille percorsi sta lentamente ma costantemente erodendo le nostre libertà fondamentali; uno di questi percorsi è stato la riforma degli enti locali, sbandierata come razionalizzazione delle funzioni pubbliche, in realtà nata per depotenziare la spinta centrifuga della Lega, dando il classico “contentino”. E in effetti le amministrazioni leghiste hanno fatto ampio uso delle nuove opportunità per vessare in ogni modo la popolazione immigrata. Ma questo aumento di potere non fa certo schifo neanche alle amministrazioni di “sinistra”, come quella bassanese, che nelle promesse elettorali parla di inclusività, di partecipazione popolare alle scelte politiche e di gestione partecipativa del patrimonio pubblico ma nei fatti emana un regolamento che ostacola il diritto di pubblicizzare un’iniziativa politica non patrocinata da ente pubblico, cioè sostanzialmente da loro stessi.
E, a conti fatti, questo aumento dell’autonomia locale rafforza l’azione repressiva del potere centrale, andando a delegare alle autorità locali la limitazione dei diritti che il vietare tout court con una legge nazionale potrebbe essere facilmente denunciato come autoritarismo: molto meglio vietare dove ce n’è il bisogno, e far credere di avere diritti a chi invece non li esercita. Questo è senz’altro anche uno dei motivi per cui la Costituzione è da anni ormai costantemente sotto attacco. Dietro la solita foglia di fico della “razionalizzazione” c’è il rifiuto di assoggettare il potere politico a dei principi di carattere generale. Soprattutto se questi principi sono quelli nati dalla lotta di liberazione dal nazi-fascismo, in cui determinante fu l’apporto delle forze comuniste e socialiste. Oggi, non esistendo più una forza organizzata espressione dei lavoratori, la Costituzione rappresenta l’ultimo ostacolo al dilagare del neo-liberismo, abbattuto il quale, da un lato la dittatura del Capitale sarebbe legittimata de iure, allontanando ulteriormente qualsiasi speranza di emancipazione; dall’altro la “casta” politica potrebbe nuovamente perpetrare se stessa come cane da guardia dei grossi potentati economici e di un’organizzazione della società se possibile ancor più clientelare. Questa la posta in gioco nel prossimo referendum istituzionale. Una posta dal valore principalmente simbolico, dato che la maggior parte dei dettami costituzionali è rimasta finora lettera morta, ma non per questo meno importante.
19 Giugno 2016
La francia e noi
Al momento di scrivere è in corso lo sciopero generale e la manifestazione nazionale del 14 giugno si è conclusa da poco.
Parigi e le principali città francesi sono state invase da fiumi di manifestanti ( un milione nella sola capitale). Sono in corso – dice la tv nostrana – scontri molto violenti e il dito è puntato, ovviamente, sui giovani “casseurs”. Le immagini restituiscono invece cariche di sbirri alla “robocop”.
E’ troppo presto per tirare un bilancio della lotta in corso e individuarne possibili prospettive, possiamo però andare a ritroso e ripercorrere quanto accaduto.
Non che il clima fosse idilliaco in Francia: la vittoria elettorale del Front National ed il clima d’emergenza seguito agli attentati di gennaio e novembre 2015 avevano bloccato l’iniziativa politica. Nonostante ciò, una grande mobilitazione sociale andava crescendo, dura e determinata, come la manifestazione dei lavoratori Air France contro la soppressione dei posti di lavoro (ricordiamo le immagini della precipitosa fuga dei dirigenti a torso nudo) o come la ripresa di scioperi ed interruzioni del lavoro nelle piccole e medie imprese a seguito delle obbligatorie trattative annuali.
Tutto questo era la dimostrazione che l’inerzia e la debolezza della sinistra e delle direzioni sindacali non erano per niente condivise dai lavoratori e dai molti giovani colpiti da disoccupazione e politiche di austerità. La situazione rimarcava la crescente distanza del movimento dei lavoratori dai partiti istituzionali, già colpiti dall’astensionismo e dal voto al Front National da parte dei settori popolari nelle ultime elezioni.
Medef (la Confindustria francese) premeva sul governo affinchè il tema del “costo del lavoro” fosse posto con urgenza, per ridare competitività all’industria francese e portare la Francia al livello di “austerità” degli altri Paesi europei.
L’opera di erosione dei diritti sul lavoro iniziata da alcuni anni veniva così drasticamente velocizzata: il governo Valls-Hollande si faceva promotore della legge sul lavoro (loi travail), nuova e più potente mazzata ai lavoratori e misura utilissima per la ripresa dei profitti attraverso lo smantellamento della giornata lavorativa legale, tagli ai salari, destrutturazione dei contratti collettivi, maggior libertà di licenziamento. Una legge ispirata, secondo lo stesso Valls, dal nostrano Jobs Act.
Ma la loi travail è esplosa nelle mani di chi la stava fabbricando. Almeno fino ad ora, e non è poco.
Dopo la diffusione di un’approfondita analisi della legge, alcuni sindacati, sicuramente i meno “concertativi”, e le reti sociali con ripetuti appelli chiedevano il ritiro della legge. Da notare che le direzioni sindacali, fino ad allora, si erano limitate a mettere in discussione solo alcune misure, lamentando più che altro la mancanza di dialogo col governo, senza alcuna chiamata alla mobilitazione, nel più perfetto stile “italico”. Il fatto poi che l’invito alla prima mobilitazione sia partito dalle reti sociali, rivela che le direzioni dei sindacati confederali erano orientate alla resa, cosa del resto evidente di fronte alla totale mancanza di preparazione alla mobilitazione, costruita con il necessario lavoro di informazione e di sensibilizzazione dei lavoratori.
In Francia le grandi mobilitazioni non sono episodi occasionali. Già vi erano stati duri scontri contro la riforma delle pensioni, a più riprese, fino al 2010, e nel 2006 il movimento degli studenti aveva ottenuto una significativa vittoria contro il “contratto di primo impiego” del governo Villepin. A questo proposito si segnala che già in quell’occasione il governo era ricorso al famigerato art. 49-3 della Costituzione, la stessa procedura richiesta ora, che permette al governo di varare una legge senza dibattito, nè voto in Parlamento.
Nel 2005 una violenta rivolta urbana nei quartieri popolari si protrasse per quattro settimane. Protagonisti furono i giovani arabi e neri, bersaglio delle campagne sulla sicurezza e vittime privilegiate di disoccupazione e precarietà. E’ questo un settore giovanile che vive una profonda frattura sociale, derivata dalla suddivisione razzistica operata nei quartieri popolari e visibile nell’attuale movimento. Da qui originano le difficoltà nel ricomporre il fronte di lotta, dovute alla mancanza della consapevolezza di appartenere alla stessa classe.
Simili sono le difficoltà originate dalla pesante ristrutturazione di industria e servizi. Anche qui la balcanizzazione del mercato del lavoro (precarietà, subappalti, dequalificazioni…) ha generato un disorientamento politico ed organizzativo non risolto dal movimento sindacale.
La mobilitazione generale contro la loi travail, i cortei, gli scioperi, le occupazioni delle piazze con l’obbiettivo di “bloccare il paese” contro l’autoritarismo del governo, da una lato è tesa a smascherare le menzogne sui presunti benefici generali derivanti dall’introduzione della legge, puntando alla debolezza politica del governo Valls-Hollande, che riafferma la propria autorità ricorrendo alla repressione: con l’uso massiccio dei soliti media asserviti, apre alla criminalizzazione del movimento, mentre prolunga lo stato di emergenza. Oggi (15.6) Hollande, agitando le violenze del giorno prima, dichiara di voler imporre il veto totale al diritto di manifestare.
Dall’altro questa grande mobilitazione sembra non volersi riconoscere nell’occasionale convergenza delle lotte o nell’altrettanto occasionale assembramento di cittadini insoddisfatti, quanto invece interrogarsi sulle forme di organizzazione e di rappresentanza politica dei proletari (politica, non elettorale) e sul progetto di società, attraverso una pratica di massa realmente capace di trasformare la propria condizione sociale, col superamento del sistema di sfruttamento capitalista. Chiaro che il successo di simili intenzioni non è dietro l’angolo, tuttavia il movimento francese è riuscito per ora a rompere il clima di isolamento e paura seguito agli attentati di novembre, rilanciando le forme di lotta più dure e ricostruendo la consapevolezza della centralità e della forza concreta dei lavoratori.
Al centro della scena sembra essere al momento la CGT, che punta determinata a farsi riconoscere quale principale interlocutore dal governo. Sia chiaro: la CGT non è la CGIL, e questa è la differenza più evidente tra la situazione francese e quella italiana. La linea collaborazionista della CGIL con i governi ed i padroni non porterà mai alla difesa intransigente e determinata delle rivendicazioni dei lavoratori: la loro “cogestione” ha portato alla rinuncia alla lotta. Tutt’altro è il presupposto della scelta di classe di alcuni sindacati (in primis la CGT) in Francia, considerando
che lo sviluppo del movimento di classe e lo schieramento dell’azione sindacale rappresentano oggi i due poli che determineranno lo sviluppo della lotta.
Questa grande mobilitazione sembra voler rilanciare la discussione sull’iniziativa politica di classe e la lotta anche in Italia. Se ne è avuta l’impressione anche nel clima politico durante il recente sciopero dei metalmeccanici per il rinnovo contrattuale. Le parole di Landini, segretario FIOM, dal palco di Vicenza suggerivano l’idea che la pressione esercitata su Confindustria abbia il solo scopo di poter tornare al tavolo delle trattative a rilanciare la parola d’ordine della concertazione. A questo fine ha usato anche un certo tono “autocritico”, buono per gli applausi di rito, riferito agli accordi sulla riforma pensionistica. Manco una parola invece su tutte le altre battaglie perse perchè non combattute (e visto come sono andate le cose in Francia, il Jobs Act sembra a questo punto la madre di tutte le battaglie perse).
In casa nostra il problema centrale sembra proprio questo. Lottare da noi è difficile. La sfiducia, la rassegnazione che pesano sulla classe operaia italiana sono dovute con ogni evidenza e in gran parte ai confederali. La loro strategia sembra volta a smantellare ogni residuo di identità che la classe lavoratrice ancora detiene.
Più che un’arrendevolezza “riformista” socialdemocratica, sembra trattarsi di una svendita vera e propria, la “co-gestione” in perfetto stile neoliberista americano.
Per questo le lotte in Francia sono così importanti: la loro lotta è anche la nostra e di tutti i lavoratori, fuori da ogni confine. Insegnano a costruire obiettivi unitari che favoriscano l’unità dei lavoratori, che il conflitto va generalizzato e chiamano in causa non una singola vertenza ma l’intero sistema di sfruttamento capitalista. Invitano a liberarci dei sindacati inutili e dei loro funzionari corrotti e codardi, per ricostruire le nostre organizzazioni di lotta.
Luciano Orio
7 Giugno 2016
Verità e Giustizia per Viareggio!
VERITÀ E GIUSTIZIA PER VIAREGGIO!
La sera del 29 giugno 2009, un treno merci che trasportava gas propano liquido deragliò nei pressi della stazione ferroviaria di Viareggio. Un asse sotto ad un vagone cisterna si ruppe, questo si rovesciò e dalla cisterna squarciata fuoriuscì il gpl che dopo qualche istante esplose incendiando persone e cose nel raggio di centinaia di metri. Alla fine 32 persone morirono, arse vive all’istante o decedute in ospedale dopo giorni o settimane di agonia, molte altre rimasero ustionate in modo gravissimo portando per tutta la vita i segni di quella tragedia su gran parte del loro corpo.
Non è stata una fatalità, ma una strage consumata sull’altare del profitto, del super-sfruttamento, del disprezzo della vita umana: UNA STRAGE DEL CAPITALE. Lo ha confermato implicitamente pure l’ispettore superiore Angelo Laurino, comandante della squadra di polizia giudiziaria del Compartimento Polfer della Lombardia, che da diversi anni sta indagando su questa strage, con la seguente dichiarazione rilasciata alla stampa durante un’intervista: ““Appare chiaro che con la privatizzazione si è principalmente perseguito lo scopo di imporre comportamenti competitivi di mercato senza introdurre adeguati vincoli a garanzia della sicurezza di trasporto”. In sostanza ogni azienda, pubblica o privata che sia, operante nel settore ferroviario risparmia sulla manutenzione del materiale rotabile, abbassando in questo modo il livello di sicurezza, per mantenere alti i propri margini di profitto.
Quindi il controllo e la manutenzione dei vagoni sono carenti, come nel caso di Viareggio, inesistenti, come ha sostenuto l’ingegnere Paolo Toni, consulente tecnico della Procura di Lucca incaricato di svolgere la perizia sul convoglio deragliato, con queste parole: “Se la fase di manutenzione avesse funzionato, se fosse stata ben programmata, se i controlli fossero stati frequenti, quella frattura avrebbe avuto un’altissima probabilità di essere individuata”, inoltre, “sarebbe bastato un controllo visivo accurato da un esperto di questi problemi” per capire che l’asse che si è spezzato causando il deragliamento del vagone carico di gpl era difettoso “a causa di un’ossidazione imponente”.
Sotto accusa, con la contestazione di reati che vanno dall’omicidio colposo plurimo, incendio colposo, illecito amministrativo e violazione delle norme di sicurezza sul lavoro, sono finite 33 persone, tra cui gli allora vertici di Ferrovie dello Stato e Trenitalia; i tecnici ed i dirigenti di tre aziende: la Gatx Rail, l’officina Jungenthal e la Cima riparazioni. Molti di questi imputati nel frattempo hanno fatto carriera, compreso Mauro Moretti, all’epoca della strage amministratore delegato del Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane, che non solo è stato nominato da Renzi alla guida di Finmeccanica, ma è anche stato insignito del titolo di cavaliere del lavoro dall’ex-presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Oltre al danno, i familiari delle vittime rischiano pure la beffa di non poter avere giustizia in tribunale perché sul processo in corso pende la spada di Damocle della prescrizione, in quanto molti dei reati contestati agli imputati, che costituiscono gran parte della struttura che sorregge il processo, cadranno prima che si arrivi a sentenza definitiva. Tra i capi d’imputazione che spariranno presto dal processo, figurano incendio colposo, lesioni gravi e gravissime e contravvenzioni alle norme per la sicurezza sul lavoro.
Del disastro ferroviario di Viareggio, del processo in corso, di sicurezza in ambito ferroviario e di repressione nei luoghi di lavoro ne parleremo con il ferroviere Riccardo Antonini (consulente tecnico di parte nominato da alcuni familiari delle vittime nelle indagini giudiziarie relative alla strage di Viareggio e per questo motivo, per il solo fatto di aver deciso di mettere le sue competenze a disposizione di queste persone affinché possano ottenere verità e giustizia, il 7 novembre 2011, venne licenziato dalle FS) e con alcuni rappresentanti dell’associazione onlus “Il Mondo che vorrei”, che raccoglie i familiari delle vittime della suddetta strage.
SABATO 11 GIUGNO – ore 16.30
SCHIO – Sala degli Affreschi del Palazzo Toaldi Capra
Comitato di Solidarietà con le Lotte dei Lavoratori
18 Maggio 2016
Amianto: Morti di progresso
Questo il titolo del libro che andiamo a presentare a Schio e a Bassano il 27 e 28 Maggio rispettivamente.
Una panoramica sulle lotte contro le nocività, argomento purtroppo sempre di attualità anche nella nostra regione.
17 Aprile 2016
Presentazione del libro: “Sebben che siamo donne”
13 Aprile 2016
Il neo-costituito comitato di solidarietà, composto da lavoratori dell’alto vicentino, propone una serie di incontri sulla realtà del lavoro in Italia. Invitiamo tutti a partecipare
Assemblea Antifascista Bassanese